Missione quasi interstellare

Locandina ufficiale della missione. Credit: Johns Hopkins APL

Sono passati 64 anni dal 1957, quando lo Sputnik 1, il primo oggetto artificiale lanciato nello spazio, ha inaugurato l’esplorazione umana del sistema solare con sonde robotiche. Dall’orbita terrestre si è andati sempre più lontano, sulla Luna, su altri pianeti, asteroidi e comete. Si è esplorato tanto, e tanto rimane ancora da esplorare; il nostro sistema solare è davvero molto grande e variegato. Con i suoi 15.000 miliardi di chilometri di raggio, diventa però un oggetto molto piccolo se confrontato con le distanze con cui ci si deve raffrontare al di fuori di esso. La stella più vicina è a più di un milione di volte questa grandezza e tutto il resto del cielo visibile si trova a ordini di grandezza ancora superiori.

Nonostante questo, è già in studio avanzato la prima missione spaziale robotica con destinazione al di fuori del sistema solare, Interstellar Probe. Si tratta di un’iniziativa per arrivare a studiare il mezzo interstellare a una lunghezza tripla di quella percorsa finora dalla sonda più lontana. È una distanza ragguardevole, ma già possibile con la tecnologia di oggi.

La missione Interstellar Probe si pone l’obiettivo di operare dalla distanza di 1.000 au, unità astronomiche, di durare almeno 50 anni dal lancio, di riuscire a eseguire attività scientifiche in maniera autonoma, di comunicare con la Terra, se pur con grande ritardo, e di utilizzare solo tecnologie esistenti e collaudate nello spazio. Si tratta quindi di raccogliere il meglio di quanto usato nell’esplorazione spaziale senza inventare niente di nuovo, per provare ad arrivare molto più lontano di quanto si sia mai andati.

Gli studi passati

Giusto per fare un paragone, solo quattro sonde hanno superato il confine del sistema solare, una zona che idealmente si identifica con il termine dell’eliosfera, la grande regione sotto l’influenza del vento solare che termina a circa 100 au dal Sole. Di queste solo due sono ancora attive, Voyager 1 e Voyager 2, che si trovano rispettivamente a 154 e 128 au dal Sole. Le altre due, Pioneer 10 e Pioneer 11, sono a 130 e 108 au ma sono inattive, rispettivamente dal 2003 e dal 1995.

Intervista del 2019 con il Dr. Kirby Runyon, geologo planetario, scienziato attivo nello sviluppo della missione

Le due sonde Voyager sono state lanciate nel 1977, quindi sono attive da 44 anni, per cui non è impensabile progettare una nuova sonda ideata per resistere almeno 50 anni nello spazio profondo. Oltretutto, la missione principale di Voyager 1 è terminata nel 1980, pochi mesi dopo il sorvolo di Saturno, giusto il tempo di inviare i dati a Terra, quindi la sonda ha una vita di gran lunga superiore alle aspettative.

Sulla base di questa esperienza, si discute da molti anni sull’utilità di inviare una sonda al di fuori della sfera di influenza elettromagnetica della nostra stella, per poter studiare i raggi cosmici, e non solo, prima che interferiscano con il vento solare. È difficile definire con precisione quando sia nata la discussione, sebbene si trovi una proposta scritta già nel 1960 in un documento NASA; una missione interstellare è stata addirittura ipotizzata nel 1911, ben prima che nascesse l’astronautica come branca ingegneristica, da Ciolkovskij, che elaborò l’equazione del razzo e capì che senza il supporto dell’energia nucleare una tale missione difficilmente poteva essere realizzata. Attualmente quanto ipotizzato 110 anni fa rimane ancora vero.

Più di recente, una proposta simile ha iniziato a essere presa in seria considerazione intorno al 2018, quando è stata presentata dal Principal Investigator (PI) Ralph McNutt all’International Astronautical Congress di Brema. Da allora si susseguono studi e finanziamenti su questa missione, e al momento ci hanno lavorato più di 500 scienziati, seppure non a tempo pieno. Una missione del genere, infatti, avrebbe un ritorno scientifico enorme che non riguarda un solo settore, ma che attirerebbe in misura diversa attenzione da diversi rami scientifici, come l’eliofisica, l’astrofisica, la scienza planetaria.

Gli obiettivi

Prima di tutto, l’osservazione del sistema solare da un punto di vista molto remoto darebbe informazioni sulla forma dell’eliosfera, che è difficile da riconoscere dall’interno. Grazie ai telescopi a Terra e in orbita è stato possibile individuare la forma dell’astrosfera di altre stelle della nostra galassia, che non è per niente sferica a dispetto di quanto ne dica il nome, ma è per la maggior parte delle volte allungata a forma di cometa, tendenzialmente nella direzione del moto della stella relativo al mezzo interstellare.

L’astrosfera assume aspetti differenti per ogni stella, a seconda delle caratteristiche dell’astro che la genera e delle condizioni del mezzo che attraversa. Credit: NASA/GSFC

Secondo, la sonda sarebbe in grado di analizzare particelle di gas e polveri che non hanno mai interagito con il vento solare, il che permetterebbe di comprendere la composizione del materiale primordiale che ha formato il nostro sistema. L’analisi in-situ permetterebbe anche di approfondire gli studi di astrofisica, analizzando raggi cosmici intatti. Inoltre, durante il lungo viaggio non mancheranno occasioni per incontri interessanti, come la visita a un pianeta nano o a un asteroide della fascia di Kuiper (KBO, Kuiper Belt Object).

Esistono più di 130 pianeti nani osservati fino ad oggi e oltre 2.000 KBO dal diametro superiore ai 100 km, ma molto altro deve essere ancora scoperto. Si stima che esistano più di 100.000 KBO di questa dimensione. Ogni KBO è diverso e un sorvolo ravvicinato di Interstellar Probe su uno di questi oggetti darebbe preziosissime informazioni sulla formazione di corpi celesti in luoghi lontani dal Sole e quindi in condizioni estremamente fredde.

Interstellar Probe si trova al momento alla fase due di questo studio, commissionato dalla divisione di eliofisica della NASA al Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory; la prima fase si è conclusa a giugno del 2019 e questa si concluderà ad aprile del 2022. Durante questi anni lo studio è maturato grazie alla discussione costruttiva di centinaia di partecipanti, esperti di differenti settori, che ha permesso di arrivare a un concetto di missione chiaro e realizzabile. Comunque ancora nulla è definitivo e il design potrà cambiare radicalmente, sia per quanto riguarda la natura della sonda sia per quanto riguarda il profilo di missione.

Pianificazione della traiettoria

Grossomodo serve andare molto veloce, questo è il vincolo più restrittivo. Si sono analizzate varie possibilità, specialmente nella prima fase dello studio, e tutte quante prevedevano l’ausilio della spinta gravitazionale di almeno un grosso corpo celeste del sistema solare. I tre profili di missione proposti inizialmente prevedevano una traiettoria con assist gravitazionale semplice di Giove per guadagnare energia orbitale, una con un accensione propulsiva nei pressi di Giove per sfruttare meglio la sua spinta gravitazionale (effetto Oberth), oppure un retroassist di Giove per perdere energia orbitale e finire a pochi milioni di chilometri di distanza dal Sole, luogo in cui una manovra propulsiva sarebbe stata molto più efficace a causa della maggiore gravità del Sole.

Rappresentazione artistica di alcuni TNO; a parte il sistema di Plutone, nessun altro oggetto è stato mai fotografato. Credit: Wikipedia/Lexicon

La prima soluzione, flyby semplice di Giove, è quella che è stata scelta al momento. Sebbene le altre due avrebbero permesso in qualche modo di guadagnare maggiormente energia orbitale, a vantaggio di tempo di percorrenza o capacità di carico, entrambe necessitavano l’uso di tecnologie non ancora completamente testate, rischiando di far slittare negli anni la missione. Per sfruttare l’effetto Oberth su Giove, è necessario portare un kick stage con la sonda, una specie di ultimo stadio di un razzo capace di effettuare un’accensione dei motori anni dopo il lancio, prima di separarsi completamente dalla sonda. Questa manovra non è ancora stata mai effettuata poiché si sono sempre usati i motori delle sonde per eventuali piccole correzioni orbitali.

La manovra con effetto Oberth sul Sole, invece, sarebbe stata di sicuro la più proficua, ma avrebbe richiesto, oltre al kick stage, l’uso di uno scudo capace di resistere all’intensa attività del Sole a poca distanza da esso. Sebbene questa protezione è di fatto in uso attualmente con la sonda Solar Parker Probe, la vicinanza richiesta da Interstellar Probe sarebbe stata ancora superiore, cambiando i requisisti di resistenza dello scudo.

Quando si pianifica una missione bisogna tenere in mente una cosa molto importante: sicuramente non sarà l’unica missione da finanziare. La pianificazione deve essere in primo luogo credibile e dettagliata, ma soprattutto deve essere realizzabile senza eccessivi rischi, per quanto si possa dire di una missione spaziale. Nel caso in esame, si è scelto di procedere con la soluzione più semplice per evitare che durante la selezione per i finanziamenti questa missione venga scartata per i rischi dovuti a tecnologie non testate.

In termini di risultati raggiungibili, il sorvolo semplice di Giove permetterà alla sonda di viaggiare a regime con una velocità di circa 7–8 au all’anno. Per paragone, il sorvolo propulso di Giove avrebbe permesso di raggiungere i 12,5 au/anno, mentre il profilo col sorvolo ravvicinato del Sole avrebbe fatto raggiungere alla sonda fuori dal sistema solare la velocità di 20 au/anno, raggiungendo l’utopico obiettivo di 1.000 au in 50 anni circa. Si tratta di velocità ragguardevoli, anche per il profilo “lento”. Voyager 1, ad esempio, viaggia con una velocità di 3,6 au/anno.

Spiegazione delle dinamiche al confine del sistema solare usando un lavandino. Quando scorre l’acqua, al centro c’è una zona dominata da un flusso radiale, all’esterno l’acqua si muove in modo caotico, il confine di queste due regione è ben visibile. Credit: K. C. Hsieh, Department of Physics, University of Arizona

Un altro fattore che ha fatto cadere la scelta sulla prima variante è il fatto che il finanziamento arriva dal dipartimento di eliofisica e un tragitto più lento può anche portare maggiori ritorni scientifici. Il Sole ha infatti un ciclo attivo periodico di 11 anni ed è interessante vedere come cambia l’ambiente all’eliopausa, il confine dell’eliosfera, in fasi di attività diversa del Sole. Una sonda troppo veloce non permetterebbe di cogliere queste differenze.

Un’altra caratteristica peculiare della pianificazione di questa missione è l’impatto che il comportamento sociale degli scienziati può avere sull’obiettivo finale. È una cosa di poco conto per le missioni con obiettivi primari di al massimo 10 anni, che non devono tenere conto di un aspetto da non sottovalutare: la maggior parte delle persone coinvolte nella missione morirà prima del raggiungimento dell’obiettivo.

Solitamente il Principal Investigator si affeziona alla missione, ne conosce ogni dettaglio tecnico e rimane il punto di riferimento principale per tutta la durata di esso. Per Interstellar Probe non potrà essere così. È necessario un cambiamento radicale nella gestione, dall’individualità al gruppo; inoltre deve essere sempre chiaro quando ci sarà il ricambio di personale in tutti i ruoli, compreso il PI, che dovrà per forza di cose essere rimosso e sostituito a date determinate. Questo problema è stato identificato, discusso e messo nero su bianco anche nel documento di preparazione della missione. Durante le missioni Voyager, che inizialmente erano pianificate per durare 4,5 anni, ben 6 PI sono deceduti. La scienza che fanno è ormai ridotta con meno della metà degli strumenti scientifici funzionanti, ma per Interstellar Probe la missione principale durerà 50 anni. In questo periodo tutto dovrà funzionare, e la missione potrà anche essere estesa fino a 100 anni.

Per scendere un po’ in dettaglio su come sarà la sonda, anche qui si è dovuto scendere a tanti compromessi. Non potrà essere molto pesante, altrimenti non raggiungerà la velocità desiderata, ma nemmeno troppo piccola perché dovrà riuscire a comunicare a miliardi di chilometri di distanza, e soprattutto dovrà riuscire a fare scienza. Orientativamente gli strumenti scientifici occuperanno circa il 10% della massa della sonda. Non è una regola, ma una necessità: oltre alla strumentazione è infatti necessario portare con sé sistemi di comunicazione, di controllo di assetto, di generazione di energia e combustibile.

Stime sullo spessore dell’elioguaina nei punti di uscita delle due sonde Voyager. Credit: Nature/Krimigis

Componenti della sonda

Il peso totale sarà di circa 800 kg, a cui va aggiunto un po’ di margine di sicurezza; gli strumenti scientifici non sono stati ancora tutti definiti, ma peseranno 87,4 kg nella versione light e 89,1 kg nella versione estesa. Ci saranno di sicuro un magnetometro, strumenti per l’analisi del plasma e degli ioni pick up, strumenti per l’analisi di particelle neutre (neutroni ma soprattutto ENA, energetic neutral atoms). E poi la parte più dibattuta, uno spettrometro Lyman-alfa importantissimo per lo studio del mezzo interstellare, oppure degli strumenti ottici nel visibile e nell’infrarosso per coprire le esigenze scientifiche durante un eventuale sorvolo di un oggetto transnettuniano.

Per le comunicazioni si userà la classica antenna parabolica in banda X. Si sarebbe potuto usare la nuova tecnologia di comunicazione laser, già testata in orbita bassa e prossimamente in fase di test in qualche missione interplanetaria, ma non c’è nessuna garanzia che la tecnologia funzioni bene oltre le 10 au e si è deciso, al solito per evitare rischi, di lasciar perdere e affidarsi a tecnologie ben consolidate. L’antenna ad alto guadagno sarà di 5 metri di diametro e richiederà 52 watt di potenza per la comunicazione. Il flusso di trasmissione dati sarà dipendente dalla distanza, arriverà a 2.592 b/s dalla distanza di 375 au e a 365–500 b/s da 1.000 au in downlink, qualcosina di meno in uplink (2.000 e 250 b/s rispettivamente). Prendendo come riferimento le solite sonde Voyager, la loro antenna era di 3,5 metri di diametro e trasmettono da una distanza molto minore a 160 b/s.

Anche per il generatore di energia elettrica si userà un sistema collaudato a RTG di nuova generazione (MM-RTG). Una coppia di generatori termoelettrici a radioisotopi sarà in grado di garantire 300 W di potenza elettrica dopo 50 anni di esercizio. Il combustibile usato per questi generatori è plutonio 238 e finora non ci sono mai stati problemi nella generazione di corrente elettrica nelle sonde equipaggiate con questo sistema. Il generatore non ha parti mobili e l’usura è ridottissima. Per sua natura, il plutonio 238 ha un tempo di dimezzamento radioattivo di 88 anni, quindi dopo soli 50 anni la riduzione di approvvigionamento elettrico sarà contenuta.

Nonostante tutte le attenzioni a limitarsi a tecnologie ben consolidate, c’è qualcosa nel progetto che rimane ancora da testare, ma si spera lo sarà entro il 2030. Si tratta del lanciatore che porterà la sonda nello spazio e la immetterà in traiettoria di trasferimento verso Giove. Il razzo scelto è un SLS Block 2, e sebbene non abbia mai volato, nemmeno nelle sue versioni precedenti, è al momento l’unico vettore in sviluppo con prestazioni dichiarate in grado di fornire un’energia orbitale alla sonda tale da farla arrivare a 7,5 au/anno dopo la fionda gravitazionale di Giove. Prima della data di lancio è possibile che faccia la sua apparizione qualche altro vettore, come ad esempio la Starship di SpaceX o il New Glenn di Blue Origin, ma al momento nessuno di questi due lanciatori ha un design definitivo, e soprattutto le loro prestazioni non sono state ufficializzate, come invece è successo per SLS.

Una presentazione un po’ più tecnica e recente sulla missione, con obiettivi e limiti messi in evidenza

Il team di Interstellar Probe è già in contatto con lo SLS payload accommodation team, per stabilire i vincoli energetici di lancio e come sistemare la sonda all’interno dell’ogiva, sia nella variante di lancio con sorvolo semplice di Giove, sia nelle altre due varianti più complesse, se dovessero essere necessarie in futuro. Sebbene questo lavoro stia procedendo, non è detto che in futuro non si cambi completamente lanciatore. È al momento escluso però che le varianti minori di SLS 2 (come SLS Block 1 e SLS Block 1B) posseggano prestazioni sufficienti.

Mentre molti dettagli tecnici sono già stati stabiliti o quasi, la direzione verso cui andrà rimane abbastanza flessibile. Dopotutto, lo scopo è andare lontano, non è così importante scegliere un punto preciso. Un vincolo tecnico è di mantenersi il più possibile nel piano dell’eclittica. Spostarsi da questo piano, infatti, richiederebbe molta energia, che andrebbe a scapito della velocità della sonda. Inoltre, Giove, tappa fondamentale per guadagnare ulteriore energia orbitale, orbita solo a poco più di un grado di distanza dal piano dell’eclittica.

Vincoli scientifici

Per quanto riguarda i vincoli scientifici, stranamente, ci sono delle zone più o meno interessanti nell’immensità del vuoto dello spazio profondo. Prima di tutto c’è da dire che l’eliosfera non è simmetrica, ma presumibilmente leggermente allungata a forma di cometa. Per uscire dall’eliosfera sarebbe quindi consigliabile andare verso il “naso” (così viene chiamata questa parte dell’eliosfera) della cometa, e non verso la coda. L’ideale sarebbe non uscire esattamente dal naso, ma da un’angolazione di circa 45°, per vedere l’eliosfera da una prospettiva utile alla sua ricostruzione tridimensionale.

Inoltre, c’è una regione misteriosa che sarebbe interessante esplorare, l’IBEX ribbon. Non avendo finanziamenti a sufficienza per studiare i confini dell’eliosfera, anni fa (2008) la NASA mandò la sonda IBEX in orbita terrestre alta per analizzare gli atomi neutri che provenivano dall’eliopausa e notò una strana abbondanza di particelle provenienti da una fascia particolare, che oggi prende proprio il nome di IBEX ribbon, la cui origine non è conosciuta. Naso dell’eliosfera e IBEX ribbon sono i due vincoli scientifici principali che delimitano il raggio d’azione della missione.

L’IBEX ribbon in un’immagine dove sono evidenziati anche naso e coda dell’eliosfera e le due sonde Voyager. In rosso le zone di provenienza degli atomi neutri con un’energia superiore a 250 keV. Credits: NASA/IBEX

Un terzo vincolo dipenderà dal fatto se si decida o meno di dotare la sonda di strumenti ottici e quindi di effettuare il sorvolo di un corpo celeste remoto. In tal caso un buon candidato per una visita potrebbe essere Quaoar, che si trova sulla giusta traiettoria per rispettare i due vincoli precedenti ed è a pochi gradi di distanza dall’eclittica. È un pianeta nano dal diametro di poco più di mille chilometri, ed è uno dei tanti oggetti conosciuti della fascia di Kuiper; si trova a circa 40 au dal Sole, a una distanza compresa tra l’afelio e il perielio di Plutone, per fare un paragone con un oggetto più familiare.

A 90 au terminerebbe la prima fase della missione di Interstellar Probe, quella dedicata allo studio dell’eliosfera interna. Seguirebbe una fase intermedia nell’elioguaina, tra 90 e 120 au, dedicata allo studio in situ della regione di cambiamento tra quella dominata dal vento solare e quella dominata dai raggi cosmici. È anche importante riuscire a osservare questa zona di spazio in momenti diversi di attività del Sole, per capire come varia in funzione del ciclo solare. Oltre le 120 au inizia poi l’ultima fase, quella di studio del mezzo interstellare vero e proprio, dove l’influenza del vento solare è ormai impercettibile.

Al momento, con il profilo di missione più accreditato, quello con una velocità media di 7,5 au per anno, la sonda potrebbe raggiungere le 375 au in 50 anni dal lancio. È decisamente un obiettivo ambizioso, e sarebbe un ottimo punto di osservazione per vedere la forma della nostra astrosfera e per capire meglio i raggi cosmici, lo spazio interstellare incontaminato e studiare il materiale da cui si è formato il nostro sistema solare.

Come si estende il sistema solare

Spesso quando si parla di distanze così grandi si perde un po’ l’orientamento. Giusto per dimensionare bene l’entità di questa missione, al momento gli obiettivi delle missioni principali presenti e passate non superavano l’orbita di Saturno, e cioè 10 au, con l’unica eccezione di New Horizons che aveva come obiettivo primario Plutone a 33 au dal Sole. Anche per Voyager 2, che sorvolò Urano e Nettuno, si è trattato infatti di un’estensione di missione e non della missione principale, che prevedeva solo il sorvolo di Giove e Saturno.

Distribuzione di alcuni corpi celesti nel sistema solare esterno. In rosso sono evidenziati i numerosi corpi in risonanza con Nettuno. Credit: Wikipedia

Quindi, eccezion fatta per Plutone, l’esplorazione del sistema solare con sonde robotiche è sempre stata concentrata in uno spazio decisamente ristretto, se visto dall’ottica della missione di Interstellar Probe. Di cose interessanti da osservare ce ne sono, però; il sistema solare è molto variegato anche oltre l’ultimo pianeta, Nettuno, a 30 au dal Sole. Questo pianeta ha una forte influenza gravitazionale sui corpi celesti della fascia immediatamente esterna a esso, i KBO, confinando gli oggetti in orbite stabili prestabilite, in risonanza con la propria. Plutone, infatti, è un oggetto di questo tipo, in risonanza 2:3 con l’orbita di Nettuno. È solo il primo di una lunga lista di oggetti scoperti, con periodo di rivoluzione attorno al Sole mediamente di 247 anni.

I plutini, infatti, di cui Plutone è uno dei tanti rappresentanti, hanno tutti un semiasse maggiore dell’orbita di 39 au. Ci sono tante altre famiglie di oggetti risonanti con Nettuno, come ad esempio i twotini, con un semiasse maggiore di circa 48 au, volgarmente chiamati così perché hanno una risonanza 1:2; altre famiglie non hanno nemmeno un nome specifico. Andando più lontano, oltre le 50 au, i KBO diminuiscono sensibilmente e inizia una nuova regione di oggetti ancor meno conosciuta: il disco diffuso. Sono corpi celesti compresi tra 50 e 100 au di distanza dal Sole e che si muovono in orbite ellittiche molto diverse tra di loro, non essendo vincolati da grossi corpi celesti nelle vicinanze. Si ritiene che le orbite, caratterizzate da eccentricità e inclinazioni elevate, possano essere instabili nel giro di milioni di anni e arrivare nel sistema solare interno o essere sbalzate ancora più lontano.

Molto più oltre, a 550 au, c’è un punto abbastanza particolare, sicuramente non oggetto di questa missione, ma che in un futuro molto lontano potrebbe essere molto appetibile per una missione scientifica ancora troppo futuristica per i giorni nostri. Questa distanza, infatti, corrisponde alla distanza focale del grande telescopio che si otterrebbe se si utilizzasse il Sole come lente gravitazionale. Uno studio su questa missione è già in corso, Solar Gravitational Lens Mission, ma è ancora solo a livello accademico.

Procedendo ancora più lontano, le conoscenze attuali sul sistema solare si riducono moltissimo: letteralmente si brancola nel buio. Oltre le 1.000 au l’influenza elettromagnetica del Sole cessa quasi completamente, anche se non del tutto quella gravitazionale. Da questa distanza inizia l’ipotetica ma ben accreditata Nube di Oort, una zona popolata da oggetti ghiacciati che si pensa possa essere la culla delle comete di lungo periodo. Il limite superiore della Nube è dibattuto, ma all’incirca sono ormai distanze dell’ordine di grandezza dell’anno luce. Le mille unità astronomiche sono comunque il limite superiore di funzionamento per cui è stata concepita la sonda.

Le nubi di gas in prossimità del sistema solare con le relative velocità. Credit: NASA/Goddard/Adler/U. Chicago/Wesleyan

Potenzialmente l’interesse astrofisico a uno o due anni luce di distanza risiede più nelle proprietà elettromagnetiche del mezzo interstellare che nei corpi celesti ancora confinati gravitazionalmente dal Sole. La nostra stella, infatti si trova in quello che si chiama Nube Interstellare Locale (LIC), una zona temporanea di passaggio caratterizzata da un campo magnetico relativamente alto. Il Sole è arrivato in questa Nube circa 100.000 anni fa e ci resterà per soli altri 10.000, in quanto è al momento molto vicino al bordo. Le osservazioni delle sonde Voyager sono state molto utili a fornire indizi preliminari sul LIC, Interstellar Probe con i suoi strumenti più accurati e dedicati al mezzo interstellare potrebbe aiutarci a capire profondamente il cortile in cui viviamo nella nostra galassia, anche se più che a noi le sue scoperte saranno note ai nostri nipoti.

Fonti

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Gianmarco Vespia

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