Sojuz MS-10: emergono le cause dell’anomalia

Credit: Roscosmos

A dieci giorni dall’incidente che ha interrotto il volo verso la Stazione Spaziale Internazionale della Sojuz MS-10 con a bordo Aleksey Ovchinin e Nick Hague, costretti a rientrare a terra dopo aver appena sfiorato i confini dello spazio, il quadro della vicenda comincia a chiarirsi e i timori di una gravissima ripercussione dell’episodio sulla vita della ISS appaiono ridimensionati.

Che cosa è successo

Il razzo Sojuz FG (l’unica versione del lanciatore russo attualmente utilizzata per il volo umano) si è staccato dalla piattaforma 1/5 del cosmodromo di Bajkonur alle 10.40 (ora italiana) dell’11 ottobre, spinto dai propulsori RD-108A del core centrale e RD-107A dei quattro booster laterali. Nella prima parte del volo, per circa due minuti, tutto si è svolto in modo regolare; nulla di strano ha colpito l’attenzione dei due cosmonauti a bordo della Sojuz MS-10, come hanno apertamente confermato durante le successive interviste.

A T+114 secondi si è avuto il distacco della torre del sistema di abort e tre secondi dopo il computer di bordo ha comandato la separazione dei quattro booster, che costituiscono il primo stadio, mentre il core centrare (il secondo stadio) continuava a funzionare.

Il decollo della Sojuz MS-10. Credit: NASA/Bill Ingalls

Poco dopo quel momento, alle 10.42.17, il sistema di fuga si è attivato automaticamente, separando le due sezioni superiori della Sojuz (il modulo orbitale e quello di rientro che ospita i cosmonauti) e allontanandole dal resto del veicolo.

Di fatto, come Hague ha raccontato alla stampa, la prima cosa imprevista che l’equipaggio ha notato sono state le vibrazioni e l’accelerazione prodotte dall’attivazione dei razzi di emergenza. Sul pannello dei comandi, la spia illuminata che segnalava l’avaria del booster ha immediatamente fatto capire ai cosmonauti quanto stava accadendo. Con molta professionalità Ovchinin e Hague, forti dei mesi di addestramento su tutti gli scenari di anomalia che avevano alle spalle, hanno mentalmente commutato il quadro della loro missione e si sono concentrati sulle procedure da seguire in quello specifico caso.

Esaurita la spinta dei razzi di fuga, ad una quota di circa 93 km, i cosmonauti sperimentavano alcuni secondi di assenza di peso. Nel frattempo il fairing si separava dalla Sojuz, permettendo ad Aleksey e a Nick di intravvedere dai finestrini la curvatura della terra e il nero dello spazio, per loro amaramente chiuso, e, più avanti, di spiare il luogo di atterraggio verso il quale erano diretti, unico aspetto della discesa che le procedure di abort non potevano prevedere con esattezza.

La parte abitata della Sojuz, a forma di campana, si era staccata dal modulo orbitale sferico e, a circa cinque minuti dal liftoff, iniziava il rientro balistico, con la capsula in caduta libera, stabilizzata solo da un movimento di rotazione attorno all’asse verticale. La rapida decelerazione prodotta dalla resistenza dell’atmosfera faceva subire ai cosmonauti per alcuni secondi forze di quasi sette volte il loro peso – 6,7 g, per l’esattezza, come il comandante Ovchinin comunicava al Centro di Controllo di Mosca.  A differenza di quanto avviene in un normale rientro i contatti con la Sojuz non hanno subito interruzioni e fino a quel momento i dialoghi, tradotti dal russo all’inglese, sono anche stati trasmessi al pubblico che seguiva la diretta.

Rallentata dal paracadute, a conclusione di un viaggio di meno di 20 minuti, la Sojuz toccava terra in Kazahstan, non lontano dalla città di Dzhezkazgan, in un luogo pianeggiante e relativamente deserto spesso utilizzato come “drop zone”, ossia zona di caduta degli stadi esausti, a circa 400 km dal Cosmodromo di Bajkonur.

A terra ricadevano anche altre parti della Sojuz che solitamente finiscono incenerite durante il rientro, come il modulo orbitale:

Subito raggiunti dagli elicotteri delle squadre di soccorso Aleksey e Nick uscivano dalla capsula senza bisogno di particolari aiuti, in condizioni fisiche molto migliori rispetto agli astronauti di ritorno dalle missioni a lunga durata sulla ISS, ma certamente assai provati moralmente per il sogno improvvisamente sfumato.

Ovchinin (a sinistra) e Hague (a destra). abbracciano i loro familiari all’aeroporto di Bajkonur, di ritorno dal loro sfortunato volo. Credit: NASA/Bill Ingalls

Un abort nella fase 4

Può creare qualche disorientamento, sulle prime, leggere che l’abort è stato effettuato dopo che la torre di fuga si era già staccata dalla vetta del razzo (questo evento, lo ripetiamo, avviene poco prima dello staging). In realtà il sistema Sojuz ha una storia molto lunga, oltre cinquant’anni durante i quali, pur mantenendo l’aspetto dei tempi di Korolëv, ha subito numerosi perfezionamenti.

La torre di fuga della Sojuz MS-10 poco prima di essere fissata in cima al fairing. Credit: Roscosmos

Il LAS o meglio SAS, come lo chiamano i russi (la sigla che sta per Sistema Avariynogo Spaseniya, ossia “Sistema di Salvataggio di Emergenza”), è composto da vari gruppi di propulsori, oltre a quelli ospitati dalla torre. Con la variante della Sojuz denominata T, adottata nel 1979, sono stati inserite due coppie di motori solidi nella parte superiore del fairing (e quindi disponibili anche dopo l’espulsione della torre), in seguito presenti in tutti gli altri modelli, compreso l’MS.

L’insieme di queste dotazioni consente una grande flessibilità del sistema di abort che non ha eguali in nessun altro veicolo con equipaggio.

Il fairing della Sojuz MS-10. Le frecce evidenziano la posizione di due dei motori di emergenza. Credit: Roscosmos

Dal punto di vista dell’emergenza il volo della Sojuz è infatti diviso in sei fasi. La prima si estende dal momento in cui il sistema di fuga viene “armato”, 15 minuti prima del lancio, al decollo. È l’unica fase in cui l’abort può essere comandato solo manualmente dal Direttore di lancio. Tutti i motori della torre e del fairing vengono utilizzati per portare rapidamente i due moduli superiori della navicella a debita distanza da un lanciatore in procinto di esplodere e a una quota tale da consentire l’utilizzo del paracadute. È ovvio pensare che ciò esponga i cosmonauti a forti accelerazioni, che raggiunsero il 17 g l’unica volta che la procedura fu utilizzata, il 26 settembre del 1983, salvando l’equipaggio Sojuz 7K-ST No.16L (nota anche come Sojuz T-10a) dall’incendio che distrusse il booster poco prima del lancio.

L’abort della Sojuz T-10a sotto gli occhi degli ufficiali sovietici. Fonte. Wikimedia

La seconda fase di emergenza va dal liftoff a T+20 secondi e differisce dalla prima solo per il fatto che i motori del lanciatore non vengono spenti, per evitare che il razzo ricada sulla piattaforma di lancio, danneggiandola.

Da T+20 secondi all’espulsione della torre di fuga (nel caso della Sojuz MS-10, a T+114 secondi) il razzo ha raggiunto una certa quota; la capsula viene perciò allontanata dal vettore utilizzando solo una parte della propulsione disponibile. In questa fase, per esempio, non si usano i motori del fairing.

La quarta fase va dall’espulsione della torre di fuga a quella del fairing, ossia da 144 a 156 secondi dopo il lancio per la Sojuz di Ovchinin e Hague, che per primi hanno sperimentato la relativa procedura di abort, con l’accensione in rapida sequenza dei due gruppi di propulsori del fairing, seguite dal rientro balistico.

Per le successive fasi di volo non sono disponibili specifici sistemi di fuga e l’unica misura di emergenza consiste in un’anticipata separazione dal lanciatore. Un’anomalia nella quinta fase prevede un immediato rientro balistico (come avvenne nel 1975 quando sul razzo che trasportava la Sojuz 7K-T No.39 fallì la separazione tra secondo e terzo stadio); mentre nella sesta il veicolo in avaria (ad esempio per depressurizzazione della capsula) ha raggiunto la velocità che consente l’immissione in un’orbita non nominale, cosa che richiede l’attivazione di una completa procedura di rientro.

L’indagine sulle cause

Poche ore dopo l’incidente, Roscosmos annunciava la costituzione di una commissione di inchiesta con il compito di individuarne le cause. Attraverso le dichiarazioni del direttore Rogozin, l’agenzia spaziale russa mostrava di voler agire in stretta collaborazione con i partner internazionali nel fare piena chiarezza sull’accaduto. La presenza in Russia dell’Amministratore NASA Bridenstine, giunto a Bajkonur per assistere al lancio, ma soprattutto per incontrare il suo collega di Roscosmos, facilitava l’intesa tra le due agenzie, evitando l’insorgere dei malintesi che si erano verificati poche settimane prima con la scoperta di un foro sulla Sojuz MS-09.

Rogozin assicurava alla NASA ampio accesso ai dati dell’inchiesta e ai risultati della commissione; dal canto suo Brindenstine rinnovava la fiducia nell’agenzia russa, sottolineando gli ottimi risultati della cooperazione tra i due paesi nello spazio, a dispetto delle difficoltà nelle relazioni politiche.

https://twitter.com/JimBridenstine/status/1051535097869012992

Una simile dichiarazione di fiducia, con un implicita richiesta di tener presente il ruolo di ESA, come partner della ISS, arrivava, tramite lettera, dal Direttore Generale dell’agenzia europea, Jan Wörner.

Come già avvenuto per altri incidenti che hanno coinvolto l’agenzia russa, alla commissione di indagine è stato dato un tempo di lavoro prefissato e piuttosto breve che scadeva il 20 ottobre. Ieri, in realtà, Roscosmos ha comunicato che saranno necessari altri dieci giorni per stilare il rapporto definitivo e le raccomandazioni sulle attività da adottare per evitare il ripetersi di simili problemi.

Da quanto è trapelato dai media, tuttavia, sembra che il quadro delle indagini, che si sono potute basare su ampio materiale – dai dati di telemetria alle registrazioni video agli stessi rottami del razzo, rapidamente recuperati nelle zone di caduta previste – sia già abbastanza chiaro.

Sergei Krikalev parla alla stampa poche ore dopo l’incidente. Credit: Roscosmos

Già il giorno successivo al lancio l’ex cosmonauta Sergei Krikalev, ora responsabile del programma di volo spaziale con equipaggio di Roscosmos, ha dichiarato ai media che i primi riscontri portavano a pensare che la causa dell’avaria del razzo, fosse identificabile in una collisione di uno dei booster che costituiscono il primo stadio, con il secondo, cioè il core centrale.

In effetti già le sole immagini riprese da terra suggeriscono l’idea di una separazione non nominale di tutti i booster. Sul Sojuz il rilascio dei razzi laterali, infatti, viene effettuato attraverso bulloni pirotecnici situati alla loro base. Per effetto di queste esplosioni, i booster tendono ad aprirsi verso l’alto, come petali, ruotando su un perno posto alla loro sommità. Quando raggiungono un certo angolo, un meccanismo ne determina il distacco, mentre un apposito sensore comanda l’apertura di una valvola di sfiato del serbatoio dell’ossigeno, posta in prossimità della punta conica del booster. L’uscita del gas produce per reazione una rotazione nella direzione opposta a quella della iniziale, che porta il booster ad allontanarsi dal secondo stadio con successive piroette.

La scena è ben visibile da 2 minuti e 17 secondi in questo video, relativo al lancio da Kourou del satellite europeo Sentinel-1A, in cui sono affiancate le riprese di una camera a bordo e quelle da terra.

L’operazione avviene di norma in prefetto sincrono tra i quattro booster i quali, visti da terra, appaiono come punti luminosi che formano il disegno di una croce, detta “croce di Korolëv” in onore padre dei razzi russi della famiglia R-7 e della Sojuz.

La croce di Korolëv durante un lancio nominale. Credit; NASA/Bill Ingalls

La caratteristica croce non si è formata dopo il distacco del primo stadio durante il volo della Sojuz: i booster separati apparivano in posizioni irregolari insieme ad un buon numero di altri frammenti, mentre il razzo sembrava deviare pericolosamente dalla sua traiettoria.

I booster della Sojuz MS-10 dopo il distacco. Credit: NASA/Bill Ingals

Secondo indiscrezioni riportate da alcuni media russi, il problema sarebbe stato originato da un errore nel montaggio di uno dei booster che avrebbe portato alla deformazione della connessione superiore. Ciò avrebbe impedito il distacco del razzo laterale che sarebbe invece ricaduto sulla parete del core centrale danneggiandolo. Anche i detriti recuperati sembrerebbero confermare questa versione.

La punta di un booster della Sojuz MS-10 viene inserita nell’apposito alloggiamento sul core, durante l’integrazione a Bajkonur. Credit: Roscosmos.

Il Direttore di Roscosmos Rogozin (a destra) durante un’ispezione della Commissione di inchiesta presso lo stabilimento che produce i razzi Sojuz. Non a caso sta esaminando la punta di un booster. Sul lato inferiore si nota l’apertura circolare della valvola di sfiato. Credit: Roscosmos

Ripercussioni future

Con il procedere dell’inchiesta, le prospettive, inizialmente paventate da alcuni, di un razzo Sojuz fermo per diversi mesi, sembrano perdere corpo. Lo spettro era quello di una ISS disabitata per la prima volta dopo vent’anni.

In effetti l’attuale equipaggio, ciò che rimane dell’Expedition 57, fomato dal comandante Alexander Gerst, Sergej Prokop’ev, e Serena Auñón-Chancellor, il cui ritorno era inizialmente previsto per il 13 dicembre, potrà trattenersi in orbita per un tempo più lungo, ma non indefinito, dal momento che il proprio veicolo, la Sojuz MS-09 attraccata alla stazione dal 6 giugno, raggiungerà il periodo massimo per cui è certificato ai primi di gennaio. Se entro quella data Alex, Sergej e Serena non potessero essere raggiunti da una nuova crew (il lancio della Sojuz MS-11, con a bordo il russo Oleg Kononenko, la statunitense Anne McClain e il canadese David Saint-Jacques, era programmato per il 20 dicembre) o se non fosse praticabile l’invio di un nuovo veicolo che attraccasse automaticamente alla stazione (cosa che comunque dovrà avvenire quando Roscosmos certificherà il lanciatore Sojuz 2.1a per il volo umano), l’ISS dovrebbe essere abbandonata a se stessa.

Ciò non significherebbe necessariamente la fine della stazione. Parlando alla stampa lo stesso giorno dell’incidente Kenny Todd, space station operations integration manager della NASA si è espresso in termini piuttosto ottimistici su questa eventualità:

Non sono troppo preoccupato per questo, finché i nostri sistemi continueranno a funzionare al livello in cui si trovano ora. E abbiamo una buona ridondanza in quei sistemi. – Ha dichiarato. – Quindi, anche senza equipaggio, possiamo tollerare alcuni avarie significative e continuare a gestire la stazione.

In realtà Roscosmos non sembra intenzionata a ritardare alcun volo. Certo, per la Progress MS-10 (o 71P), che doveva decollare il 31 ottobre, il destino non sembra ancora essere chiaro, ma ciò dipende dal fatto che con un equipaggio ridotto è inutile inviare rifornimenti non necessari o esperimenti che non potrebbero essere eseguiti. Viceversa un volo del Sojuz 2.1b con a bordo un satellite militare è ancora in calendario per il 25 ottobre da Plesetsk, mentre per la prossima capsula Sojuz MS-11 si parla addirittura un anticipo al 3 dicembre.

Se ciò avverrà la modifica di calendario si rifletterà necessariamente sulle successive Expedition, compresa la 59/60, quella il nostro Luca Parmitano, che doveva essere lanciato a bordo della Sojuz MS-13 con Aleksandr Skvortsov e Andrew Morgan nel luglio 2019. Su tutto, poi, grava l’incognita di una nuova chance che potrebbe essere offerta a Ovchinin e Hague. Rogozin ha addirittura proposto di farli volare la prossima primavera.

Il tweet sarà probabilmente da archiviare come una delle tante dichiarazioni estemporanee del capo dell’agenzia russa, ma una revisione degli equipaggi resta tra le possibilità ancora aperte.

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Roberto Mastri

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