Spore di muschio sopravvivono a nove mesi di esposizione all’esterno della ISS

Vista della Exposure Facility del modulo giapponese Kibo della ISS. Credit: Jaxa/NASA

Le briofite, piante non vascolari comunemente chiamate muschi, si sono evolute circa 500 milioni di anni fa e sono state tra i primi organismi vegetali ad abbandonare l’ambiente acquatico per adattarsi alle condizioni terrestri.
Superando diverse estinzioni di massa, nel corso delle ere geologiche i muschi hanno partecipato alla formazione dell’attuale suolo vivente e, rilasciando ossigeno nell’atmosfera, dell’ecosistema planetario.
Da allora prosperano in tutti gli ambienti terrestri dimostrando un’estrema resistenza anche sulle rocce delle vette himalayane, nella tundra antartica, nei deserti con temperature superiori a 50℃ e nelle giovani distese di lava solidificata dei vulcani attivi.
Diversi studi ne hanno dimostrato la capacità di sopravvivere alla disidratazione, al congelamento, all’esposizione alle radiazioni e alle simulazioni in condizioni spaziali generiche e marziane.

Una Space Exposure Unit con celletta interna, paragonata a una moneta da 100 Yen, una piastra di Petri con spore germinate dopo la permanenza nello spazio e ingrandimento di uno sporofito. Credit: Tomomichi Fujita, Chang-hyun Maeng/Maika Kobayashi

Recentemente un gruppo di ricerca giapponese ha pubblicato i risultati di un esperimento in cui spore di Physcomitrium patens, la specie più comune di muschio, sono state esposte per nove mesi all’ambiente spaziale ottenendo risultanti inaspettati. Questa varietà è usata normalmente come modello in biologia molecolare grazie alla sua semplicità strutturale, facilità alla manipolazione genetica e al genoma totalmente mappato.
Dopo diversi test in laboratorio, i ricercatori delle università Hokkaido, Miyagi, Kyushu, FIT, Tsukuba e TUPLS, hanno scelto centinaia di sporofiti (le strutture che per meiosi producono le spore) e li hanno preparati nei consueti exposure panel, supporti per l’esposizione dei campioni all’ambiente cosmico, già protagonisti dell’esperimento del Deinococcus Radiodurans.

Nel febbraio 2022 l’esperimento prese la via dello spazio a bordo della capsula cargo Cygnus NG-17. Raggiunta la Stazione Spaziale Internazionale (ISS), il materiale biologico venne posizionato all’esterno del modulo giapponese Kibo, dove rimase dal 4 marzo al 23 dicembre (salvo una pausa logistica di 13 giorni a giugno) per un totale di 283 giorni passati nel vuoto cosmico.
Nel gennaio 2023 l’esperimento fece ritorno a Terra a bordo della Dragon SpX-26 e rimandato in Giappone per le analisi.
Sorprendendo gli stessi ricercatori, i risultati hanno dimostrato che oltre l’80% delle spore è sopravvissuta alla permanenza nello spazio e di queste, l’89% è stato ancora in grado di germinare per dar vita a nuovi esemplari.

«Ci aspettavamo una percentuale di sopravvivenza molto vicina allo zero, ma i risultati hanno dimostrato il contrario», ha affermato Tomomichi Fujita, professore del Dipartimento di Scienze Biologiche della Hokkaido University di Sapporo in Giappone. «Siamo davvero stupiti dalla straordinaria resilienza di queste minuscole cellule vegetali. Un’incredibile dimostrazione del fatto che, almeno a livello cellulare, la vita terrestre possiede meccanismi intrinseci per affrontare le condizioni dell’ambiente spaziale».

Il professor Fujita, che abbiamo interpellato per sapere se questa può essere considerata la prima volta che un organismo vegetale sopravvive all’ambiente spaziale, ha repentinamente risposto:

Per quanto ne sappiamo, questo è stato il primo studio che ha dimostrato che le spore, la struttura riproduttiva dormiente del muschio, possono sopravvivere all’esposizione diretta delle condizioni spaziali. Tuttavia esperimenti precedenti hanno riportato casi di semi di alcune piante angiosperme, quali per esempio arabetta comune, riso, orzo e tabacco, che sono sopravvissuti dopo mesi e addirittura anni. Queste scoperte suggeriscono che gli stadi dormienti delle piante terrestri, sia spore che semi, condividono una notevole resilienza alle condizioni spaziali. Questo ci aiuterà a espandere la nostra conoscenza sulle strategie di sopravvivenza delle piante, sulla biologia spaziale e sull’ipotesi della panspermia.

Composizione di una singola Space Exposure Unit (SEU) contenente diverse cellette con i campioni di sporofiti. In rosa è evidenziato il filtro anti UV in fluoruro di magnesio (MgF2) per bloccare la radiazione solare sopra i 400 nm. Credit: Chang-hyun Maeng et al.

L’esperimento si componeva di diverse unità per l’esposizione spaziale (SEU – Space Exposure Unit), con o senza il filtro contro la radiazione solare e suddivise in due piani per lasciare al buio totale lo strato sottostante. Come controllo, alcune SEU sono rimaste nei laboratori in Giappone, evitando quindi l’esposizione al vuoto assoluto e alla radiazione solare.

Percentuali di germinazione dopo il ritorno a Terra: 97% per i campioni di controllo, 95% per quelli rimasti al buio nello spazio, 97% per quelli esposti alla luce filtrata nello spazio e 86% per quelli esposti alla luce non filtrata nello spazio. Credit: Chang-hyun Maeng et al.

I ricercatori hanno individuato nella radiazione UV il maggior fattore di stress per i campioni e che l’eccezionale resilienza dimostrata potrebbe essere il risultato di una combinazione sinergica tra le spore e lo sporangio da cui hanno origine. Quest’ultimo, fungendo da barriera, scherma le spore contenute sia fisicamente che chimicamente dall’ambiente esterno, proteggendole fino al ritorno delle condizioni ottimali per la germinazione.

La grande mole di dati raccolti ha permesso al gruppo di ricerca di creare un modello matematico che, simulando una permanenza prolungata nello spazio, ha restituito un valore massimo di 5.600 giorni di vita, pari a poco più di 15 anni.
Naturalmente saranno necessari ulteriori studi per chiarire come funzionano i meccanismi di conservazione di queste spore e se altre specie vegetali sono in grado di metterle in atto.

Fonte: Extreme environmental tolerance and space survivability of the moss, Physcomitrium patens

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Simone Montrasio

Appassionato di astronautica fin da bambino. Dopo studi e lavoro nel settore chimico industriale, per un decennio mi sono dedicato ad altro, per inserirmi infine nel settore dei materiali compositi anche per applicazioni aerospaziali. Collaboro felicemente con AstronautiNEWS dalla sua fondazione.

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