Cassini, la missione che vivrà per sempre

Si è chiusa nell’atmosfera di Saturno una delle missioni più importanti dell’esplorazione planetaria, con 20 anni di permanenza nello spazio e 14 ininterrotti anni di studio del sistema di Saturno. La sua eredità scientifica è immensa: nelle diverse estensioni, la missione ha raccolto un patrimonio di dati che è stato esplorato solo in superficie e richiederà anni per poter essere definito e completato sino in fondo.

Il destino di una sonda planetaria

Nel 2005, la missione Cassini ha scoperto che una delle lune di Saturno, Encelado, poteva ospitare un oceano nascosto sotto la sua superficie ghiacciata: questa scoperta è uno dei motivi per cui oggi, la sonda si è disintegrata nell’alta atmosfera del sesto pianeta.

Le 22 orbite del Gran Finale (fonte: NASA JPL)

Il programma di protezione planetaria della NASA, infatti, ha stabilito che per evitare qualsiasi contaminazione delle lune con potenziale presenza di vita extraterrestre, Cassini avrebbe dovuto autodistruggersi. La sonda ha infatti attinto energia in tutti questi anni da 35 kg di Plutonio-238 in un RTG, acronimo di generatore termoelettrico a radioisotopi, sistema standard per il sostentamento di missioni spaziali che non possono utilizzare con profitto l’energia solare per l’eccessiva distanza dal Sole. Ecco quindi come il destino di Cassini fosse già segnato da tempo. Non c’erano infatti plausibili soluzioni alternative. Non un ritorno a casa: non ci sarebbe stato combustibile e di certo la sonda non sarebbe potuta rientrare sulla Terra sopravvivendo ad un rientro nell’atmosfera. Non una permanenza nel sistema, che come detto avrebbe condotto ad un rischio di contaminazione. Nemmeno l’invio fuori dal sistema di Saturno nello spazio profondo, sempre per mancanza di propulsione. Si è quindi optato per un “Gran Finale” della missione che potesse massimizzare l’acquisizione dei dati scientifici con una serie di 22 orbite molto eccentriche che avrebbero condotto la sonda “pericolosamente” vicino a Saturno, fino a passare tra il gigante gassoso e i suoi anelli. Queste orbite sono iniziate il 22 aprile scorso e ciascuna ha richiesto 6 giorni e mezzo per essere completata: al termine di queste orbite, Cassini ha interagito a distanza con il campo gravitazionale di Titano per un’ultimo incontro, che l’ha diretta in rotta di collisione con Saturno.

 

Una lunga pianificazione, un avvio contrastato e un viaggio lungo 7 anni

Frutto di una collaborazione iniziata nella seconda metà degli anni ’80 tra la NASA, l’Agenzia Spaziale Europea e l’Agenzia Spaziale Italiana, la sonda Cassini-Huygens (nome più completo legato al lander destinato a discendere su Titano) è stata lanciata da Cape Canaveral il 15 ottobre del 1997 a bordo di un vettore Titan IV-Centaur. Da non dimenticare che la missione fu pesantemente contastata prima del lancio da svariati gruppi anti-nuclearisti. Il decollo del velivolo spaziale fu infatti osteggiato da un folto gruppo di attivisti che tentarono di tutto per convincere l’allora presidente Bill Clinton a bloccare la missione. Il timore degli attivisti erano i 35 kg di Plutonio a bordo; la più grande quantità mai usata nella storia dell’esplorazione spaziale. Secondo gli ambientalisti avrebbe trasformato una sonda destinata all’esplorazione scientifica in un ordigno nucleare in grado di scatenare una catastrofe. Questo, ovviamente, non successe e con il lancio iniziò il lungo viaggio della missione, con swing-by intorno a Venere, Terra e Giove ed  inserimento in orbita intorno al sesto pianeta il 1° luglio del 2004. A Natale dello stesso anno Huygens si staccò da Cassini e il 14 gennaio seguente iniziò la discesa, frenata da tre paracaduti in sequenza, tra le nubi di Titano. Il lander acquisì dati per le due ore e mezzo della discesa ed un’altra mezzora sulla superficie, quanto le batterie di bordo consentirono, ma tanto bastarono per far vedere un mondo mai neppure immaginato dove le rocce sono di ghiaccio e la superficie è formata da una mistura di idrocarburi. Un paio di anni dopo il radar ci mostrò anche l’esistenza di laghi e mari di metano liquido al polo nord. Cassini, la cui operatività era inizialmente prevista essere di soli 4 anni ha lavorato a una distanza di quasi un miliardo e mezzo di chilometri, il suo segnale radio per giungere sulla Terra ha impiegato mediamente 80 minuti. Un dettaglio non trascurabile nel Gran Finale della missione, è che la sonda ha preso il nome dall’astronomo italiano Gian Domenico Cassini, morto il 14 settembre 1672, cioè 305 anni e un giorno prima della fine dell’omonimo velivolo spaziale.

Scienza fino alla fine

Le ultime ore di Cassini (fonte: NASA JPL, modificato da Emily Lakdawalla, Planetary Society)

L’ultima settimana di vita di Cassini è cominciata lunedì 11 settembre, quando un sorvolo ‘distante’ di Titano, una luna che la sonda ha incontrato e fotografato centinaia di volte, ha fornito una ‘spinta gravitazionale’ sufficiente a metterla in rotta di collisione con Saturno. Questo è stato il punto di non ritorno, dopo il quale i punti salienti del programma erano ormai fissati in modo ferreo. Giovedì 14 settembre alle 21.58, Cassini ha cominciato a scattare il suo ultimo treno di foto. Pensare che si trattava davvero delle ultime immagini, delle oltre 453.000 scattate in 14 anni di orbite, è stato per gli addetti ai lavori e per molti appassionati il momento più emozionante e a suo modo triste del Gran Finale. Il database curato dal CICLOPS (Cassini Imaging Central Laboratory for Operations) ha raccolto le immagini ‘raw’ che sono state scaricate in tempo quasi reale durante tutta la missione: è quindi facilissimo accedere alla pagina e scaricare le immagini per elaborarle e questo è stato fatto dagli appassionati praticamente quasi ogni giorno. La qualità delle immagine grezze di Cassini era poi davvero molto elevata. Sebbene le capacità di elaborazione di molti citizen scientists sia molto alta, il differenziale con le immagini grezze e il lavoro necessario per renderle più leggibili è senza dubbio minore rispetto ad altre missioni (basti pensare alla contemporanea missione Juno). La Planetary Society raccoglie nella Bruce Murray Space Image Library il meglio delle foto della missione.

Alle 23.45 di giovedì 14 settembre, Cassini ha cominciato la trasmissione di tutti i dati ancora contenuti nella sua memoria verso la Terra, incluse le ultime foto, che hanno raggiunto il database del CICLOPS verso le 02.00 del 15 settembre (ora italiana). Il primo set di foto è stato ripreso con soggetto Saturno nella sua completezza, nella consueta tradizione di Cassini di riprendere i fotogrammi necessari per un sontuoso mosaico.

L’ultima vista completa su Saturno (Fonte: CICLOPS, elaborazione Jason Major)

Le foto successive hanno incluso un suggestivo tramonto di Encelado dietro il profilo di Saturno, alcune inquadrature contenenti gli anelli di Saturno e qualche piccola luna: infine un’ultimo sguardo al gigante gassoso prima del tuffo nella sua atmosfera.

L’ultima immagine scattata da Cassini (fonte: CICLOPS, elaborazione Jason Major)

Alle 10.37 di venerdì 15 settembre le attività di downlink dei dati e delle immagini sono state completate e Cassini ha cominciato a riconfigurarsi per trasmettere i dati scientifici in tempo reale. Non sarebbe stato possibile scattare foto da questo punto in poi. La velocità troppo elevata avrebbe reso il soggetto delle foto estremamente mosso e le condizioni non sarebbero state ottimali. Il downlink delle immagini, poi, come visto poc’anzi, avrebbe richiesto un tempo non compatibile con quello rimasto alla sonda per raggiungere il punto di impatto con l’alta atmosfera di Saturno. L’entrata al punto di disintegrazione infatti era prevista per le 12.30 ora italiana, mezzogiorno ora locale di Saturno, per consentire un puntamento pieno dell’antenna verso la Terra e acquisire tutti i dati possibili. Scienza sino alla fine, quindi e così è stato, perché i dati raccolti negli ultimi minuti e trasmessi poco prima della perdita del segnale, contengono informazioni preziosissime sull’attività dell’atmosfera di Saturno a circa 950 km di altezza sulla sommità delle nubi e molto probabilmente le loro elaborazioni riempiranno decine di tesi di dottorato negli anni a venire. Cassini ha utilizzato diversi strumenti per raccogliere tutti i dati, tra cui un magnetometro, un analizzatore di polveri (CDA), uno spettrometro a infrarossi (CIRS) e uno ad ultravioletti (UVIS) e uno spettrometro per la rilevazione del plasma (CAPS). Cassini era anche dotata di strumenti gestiti dall’ESA, il cui Controllo Missione a Darmstadt ha seguito il Gran Finale in tempo reale attraverso l’antenna da 35 metri della sua stazione di New Norcia.

Gli strumenti ESA a disposizione di Cassini (fonte: ESA)

 

Cronaca di una disintegrazione annunciata

Gli ultimi momenti della vita di Cassini sono stati costellati per lo più dai messaggi del controllo missione, che verificava periodicamente la presenza del segnale, captato dall’antenna 43 del complesso di Canberra, in Australia, a supporto della Deep Space Network della NASA. La velocità della sonda è andata aumentando esponenzialmente, fino a raggiungere i 113.000 km/h e nel punto in cui la velocità era massima, Cassini ha cominciato a disintegrarsi. Erano circa le 12.30 ora italiana. A quel punto la sonda eroica che ha lavorato per un tempo molto superiore a quello di progetto, aveva finito la sua missione, ma il lavoro sulla Terra non era completato. È stato infatti necessario avere la conferma della perdita del segnale, che sarebbe arrivata 85 minuti dopo, alle 13.55 ora italiana. Il fatto di ricevere una conferma di perdita di segnale da un trasmettitore che nel frattempo non esiste più, è uno degli aspetti della relatività che rende l’esplorazione spaziale così affascinante, ma anche così maestosa e talvolta molto difficile.

 

 

La conferma di perdita del segnale è stata rilasciata dal Controllo Missione in tempo reale e questo ha dichiarato la formale “end of mission” per Cassini e tutto il suo team.  Nel momento della perdita di segnale di Cassini, le antenne di Canberra stavano raccogliendo anche il segnale della Voyager 2, da 17 miliardi di chilometri di distanza. Non un passaggio di consegne, certo, ma quasi una metafora di continuità e una testimonianza di quanto il genere umano possa fare nell’esplorazione del cosmo anche con poche risorse, se confrontate con quelle spese negli armamenti e in molte altre meno nobili e più terrestri imprese.

Il momento della perdita di segnale di Cassini

 

Il Gran Finale mette quindi fine ad una missione alla quale ogni appassionato di esplorazione spaziale era abituato quotidianamente. Se le due Voyager sono ancora attive a 40 anni dal loro lancio, è anche vero che l’entusiasmo del loro ‘Grand Tour’ è scemato dopo il sorvolo di Nettuno da parte della Voyager 2 nel 1989, per risvegliarsi almeno parzialmente nel 2013 con la scoperta dello sconfinamento della Voyager 1 nello spazio interstellare. Si tratta di missioni longeve cui la scienza è profondamente debitrice: straordinari apripista e sonde ormai leggendarie che rischiarano la via dell’umanità nell’esplorazione spaziale. Purtuttavia si tratta di missioni la cui frequenza di dati, specialmente dopo la fine del Grand Tour, è stata molto bassa, oggi ridotta alla misurazione di particelle cariche agli estremi confini del Sistema Solare. Cassini-Huygens, invece, è stata una missione ‘intensa’ dall’inizio alla fine. Gli swing-by, le foto di Giove, gli anni di Saturno, le estensioni di missione, le migliaia di fotografie; e ancora le sensazionali scoperte scientifiche fatte con il ritmo di 2-3 l’anno. Una missione generazionale, ma senza pause di sorta. Molti di noi erano ragazzi quando Cassini è stata lanciata; in molti abbiamo scoperto la missione sulle linee di connessioni internet traballanti e incerte, ne abbiamo visto le foto con cadenze via via crescenti, fino a diventare un’appuntamento quotidiano. In molti sono nati proprio in quegli anni e magari oggi si affacciano per la prima volta a quella che può essere tranquillamente definita un’epopea spaziale. Comunque una missione alla quale è stato molto facile affezionarsi, pensando che non sarebbe finita mai. Eppure una fine era prevista e c’è stata oggi. Ma non sarà una vera fine: il lavoro continuerà. Il ritmo forsennato con il quale foto e dati sono stati trasmessi da Cassini, ha costretto tutti i team, tutti i ricercatori a raccogliere solo la schiuma in superficie, per fare in fretta e prendere quanto di più macroscopico c’era nell’onda di informazioni trasmesse. Ma è sotto che ancora giace il volume più grande di dati e di potenziali scoperte scientifiche ancora da fare. Gli anni di lavoro su questi dati saranno molti, per una missione che potrebbe non finire realmente prima del termine della prossima decade, entro quando, forse, auspicabilmente, si tornerà a parlare di esplorazione robotica di Saturno. Ancora oltre, Cassini è una missione che vivrà per sempre perché verrà per sempre ricordata. Ogni volta che scorgeremo in cielo il pianeta degli anelli, ricorderemo. Sorrideremo. E desidereremo nel profondo di tornare là.

 

 

 

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Commenti

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Massimo Orgiazzi

Appassionato di astronomia, astronautica e scienza, nella vita è ingegnere. Ha scritto narrativa, poesia e critica letteraria, ha una passione per il cinema e organizza rassegne cineforum. Twitta in inglese di spazio e scienza con l'handle @Rainmaker1973

2 Risposte

  1. MayuriK ha detto:

    Ottimo articolo, quasta sonda ha davvero portato molto all’esplorazione spaziele.

    • espirit ha detto:

      Concordo; penso che con la Voyager 1 sia stata quella più profittevole dal punto di vista scientifico