Dove finiscono i razzi al termine della missione?

La carcassa di un Sojuz. Credit: Roskosmos

Ci sono decine di migliaia di satelliti attivi in orbita terrestre: scientifici, militari, commerciali, delle telecomunicazioni… Svolgono il loro servizio per un periodo di tempo prolungato, a volte anche di parecchi anni. Per arrivare lì dove sono è necessario un mezzo di trasporto esageratamente grande rispetto al satellite: un razzo vettore che svolge il suo lavoro solamente per pochi minuti, per riuscire a dare al carico quota e velocità desiderate per inserirsi nell’orbita finale. Il lanciatore, solitamente, poi non ha più altri compiti da svolgere e viene abbandonato.

Il destino del razzo ormai inutile dipende sostanzialmente dalla tecnologia e dal profilo di missione per cui è stato impiegato. Prima di scendere nei particolari, è doveroso notare che tutti i razzi vettori, nessuno escluso, sono composti di varie parti che vengono espulse via via che il lanciatore si avvicina al traguardo della sua missione: booster laterali, stadi, interstadi, ogiva, eventuali coperture termiche, adattatori e altri componenti di minore importanza.

Negli ultimi anni si sta diffondendo la pratica di tentare il recupero e riciclo di alcune componenti, ma è ancora una prassi in esercizio o in fase di studio solo per poche aziende. Il primo programma di riuso di componenti di un lanciatore risale addirittura alla fine dell’era spaziale delle missioni Apollo, quando iniziò lo sviluppo dello Space Shuttle, che inizialmente doveva essere completamente riutilizzabile ma poi, date le grosse difficoltà tecnologiche da affrontare, vide realizzato il recupero e il ricondizionamento del solo orbiter e dei booster laterali. Sebbene in un primo momento possa sembrare un’ovvia evoluzione economica dello sviluppo astronautico, i costi necessari alla filiera di riciclo superavano di gran lunga i benefici, e i progressi sul rientro controllato dei lanciatori andarono in pausa per lungo tempo fino ad arrivare allo scorso decennio, quando SpaceX per la prima volta riuscì a effettuare l’atterraggio morbido di un primo stadio di un Falcon 9.

Il primo atterraggio di un Falcon 9 su una piattaforma a terra

Ormai l’azienda di Elon Musk ci ha abituato agli atterraggi controllati dei primi stadi dei suoi lanciatori Falcon 9, ma anche altri attori stanno studiando come riuscire a recuperare parte del prezioso hardware utilizzato per mandare satelliti in orbita, con tecniche più o meno simili. Rocket Lab, ad esempio, prevede di recuperare al volo il primo stadio del suo Electron, con un elicottero che dovrebbe agganciarlo dopo un rientro controllato con l’apertura di un paracadute. ULA progetta di staccare solo il comparto motori dal primo stadio del suo nuovo razzo Vulcan, la parte più costosa, per tentarne il recupero. Anche alcune agenzie spaziali spingono per avere nella loro flotta qualche esemplare adatto al recupero, come CNSA con il suo Lunga Marcia 8 o Roskosmos con il progetto del nuovo razzo Amur.

Si tratta comunque di una fetta ridotta del complesso delle attività spaziali. La verità è che al momento la maggior parte dei vettori dopo il loro utilizzo vengono semplicemente abbandonati, e si schiantano da qualche parte sulla Terra. Ad oggi non si sono mai registrati danni a persone derivanti da eventi di questo tipo. Per vedere come si affronta il problema dell’abbandono dei razzi, nelle sue varie componenti, bisogna fare una distinzione tra le parti che raggiungono la velocità orbitale e quelle che vengono espulse prima.

Il caso suborbitale

Solitamente i primi stadi, i booster laterali e l’ogiva dei razzi soddisfano il compito per cui sono stati progettati entro pochi minuti dal lancio, e non raggiungono quasi mai la velocità orbitale. Il rientro in questo caso è di tipo distruttivo (cioè provoca la perdita del componente stesso), avviene a velocità di caduta e viene programmato accuratamente in modo da avere luogo lontano da porzioni di territorio densamente abitate. Non è un incidente. È tutto previsto già in partenza: tutto nominale, come si dice nel gergo astronautico. Per gli operatori che hanno la possibilità di effettuare un lancio da una base situata sulla costa est di un territorio, il gioco si fa molto più semplice, perché si riesce facilmente a programmare un rientro in mare, lontano da zone abitate e segnalato con grande anticipo alle imbarcazioni (tramite un avviso chiamato NOTMAR – Notice to Mariners) in modo che non entrino all’interno dell’area di ricaduta dei detriti.

In rosso le zone NOTAM per il volo Ariane 5 VA241. Credit Image: Spaceflight101/Google Earth

È il caso dei lanci che avvengono da Cape Canaveral, Wallops, Kourou, Wenchang o Mahia, ad esempio. In questi casi viene emesso anche un NOTAM (NOtice To AirMen) che delimita le zone di pericolo per rientro incontrollato. Le zone in un NOTAM possono essere più di una, e sono a forma di rettangoli allungati nella direzione di marcia, tanto più larghi quanto è la distanza dalla zona di lancio.

Il piano volo di un Ariane 5, ad esempio, con dei satelliti da portare in orbita geostazionaria, prevede un lancio dalla base di Kourou, nella Guyana francese, col distacco dei due booster laterali e dell’ogiva tra due e tre minuti dopo il lancio, e la separazione del primo stadio circa nove minuti dopo. Booster e ogiva cadranno in mare al largo delle coste sudamericane in acque internazionali, mentre il primo stadio rientrerà più vicino al continente africano, sempre in mare, in una zona imprecisata molto più estesa della precedente.

Quando un lanciatore parte dall’entroterra, la questione si complica un po’ di più, perché i booster o il primo stadio vanno separati dal resto del razzo quando ancora non si sorvola il mare, per cui dovranno precipitare per forza di cose al suolo. Queste costrizioni possono avere un impatto notevole sulle attività spaziali. La Stazione Spaziale Internazionale ruota attorno alla Terra in un’orbita inclinata di 51,6°. Tale orbita venne scelta proprio per permettere i lanci delle capsule russe dal cosmodromo di Bajkonur, in Kazakistan. La base di lancio fu costruita in territorio Kazako quando i due stati facevano entrambi parte dell’Unione Sovietica, e oggi russi la utilizzano grazie a uno speciale accordo. Se la ISS si trovasse su un’orbita meno inclinata (e quindi più favorevole ai lanci dagli USA), il razzo Sojuz usato per trasportare sulla ISS carichi ed equipaggi dovrebbe forzatamente essere lanciato su una traiettoria che lo porterebbe a sorvolare il territorio cinese, dove precipiterebbe una volta esaurito il propellente.

Per evitare problemi diplomatici, per la ISS fu scelta un’inclinazione dell’orbita tale da portare lo stadio centrale del Sojuz a cadere in territorio russo, nei pressi dell’altopiano dell’Altai, dove ormai i cittadini del luogo (si tratta di una regione vicino alla Siberia a bassissima densità di popolazione) sono abituati a convivere con eventi simili, tanto che ci hanno costruito attorno una microeconomia. I locali infatti trovano, raccolgono e riciclano questi detriti. I serbatoi e altre parti in metallo vengono utilizzati per costruire attrezzature per l’agricoltura, oppure vengono rivenduti. Non sono rare anche azioni legali per il disagio arrecato, anche se Roskosmos risarcisce solo i danni materiali. Il lanciatore Sojuz utilizza ossigeno liquido e cherosene speciale per razzi, che non sono tossici per l’ambiente.

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Contadini dell’Altai recuperano metallo utile da una carcassa di razzo circondati da migliaia di farfalle. Foto Flickr di Jonas Bendiksen

La situazione si fa ancora più delicata quando il lancio da uno spazioporto dell’entroterra viene eseguito con un lanciatore alimentato a combustibili tossici, come è il caso del russo Proton o dei lanciatori cinesi Lunga Marcia CZ-2, CZ-3 e CZ-4, in tutte le loro varianti. In questi casi c’è poco da fare: il rientro sul territorio del primo stadio porterà al suolo residui di carburante nocivo. In particolare queste 4 famiglie di razzi usano come carburante dimetilidrazina asimmetrica e come ossidante tetrossido di diazoto, che sono un retaggio di sviluppi in campo astronautico ormai tecnologicamente superati. Sia l’agenzia spaziale russa che quella cinese programmano di eliminare questi lanciatori dalla loro flotta di razzi attivi, sostituendoli con i più moderni Amur, ancora in fase di sviluppo, e con i CZ-6, CZ-7 e CZ-8, già in attività da qualche anno. La transizione sarà lenta e richiederà ancora parecchi anni.

Il caso orbitale

Tutto quanto spiegato precedentemente non si applica agli stadi che raggiungono la velocità orbitale, pari a circa 7,9 chilometri al secondo (naturalmente per orbite terrestri). La vita di uno stadio in questo caso non si limita più ai pochi minuti di caduta balistica. Lo stadio in questi casi potrebbe rimanere in orbita giorni, mesi, anni, o addirittura rimanerci per sempre. In caso di rientro, zona di ricaduta e velocità sono molto più grandi di un rientro suborbitale.

In molti casi, fino a poche ore prima del rientro non si riesce a individuare con precisione la zona di potenziale impatto dei detriti, soprattutto quando si tratta di uno stadio in orbita bassa (tra i 160 e i 1.000 km di quota). Sebbene la latitudine del punto di impatto si possa limitare con l’inclinazione orbitale, la longitudine può assumere un valore qualunque, spaziando da est a ovest per tutto il globo. D’altro canto, una velocità così elevata è il fattore che consente allo stadio in rientro di frantumarsi, bruciando e vaporizzando la maggior parte della propria massa e lasciando eventualmente arrivare in superficie solo le componenti di densità elevata.

Alcuni costruttori hanno aggiunto ai loro ultimi stadi la possibilità di eseguire un’accensione finale, dopo che hanno rilasciato il carico utile, impartendo la spinta necessaria a controllare la caduta e a “mirare” una zona della Terra lontano da insediamenti abitati, tipicamente nell’oceano Pacifico. Con la sua estensione questo oceano garantisce un’ampia scelta di zone per rientri sicuri.

Tuttavia questa capacità non è prerogativa di tutti, e non sempre è precisa o funzionante ma si tratta comunque di un importante passo nella direzione della sostenibilità, per mantenere l’orbita terrestre pulita ed evitare rientri che potrebbero allertare i sistemi di sicurezza di molte nazioni del mondo. Per poter compiere manovre di rientro controllato, lo stadio finale deve essere studiato sin dalla fase di progettazione per integrare tale capacità. Come minimo deve essere in grado, infatti, di ruotare per girarsi nel verso opposto a quello di marcia, e naturalmente di riaccendere i motori.

Il rientro del secondo stadio del Falcon 9 della missione Starlink 17 ha destato stupore tra i cittadini dell’Oregon

A titolo di esempio, il secondo stadio dell’Ariane 5 nella sua prima versione (Ariane 5 G, 1996) non aveva la possibilità di riaccendere i motori, dato che non era una funzionalità richiesta per far fronte ai requisiti commerciali del progetto. La variante in esercizio tutt’ora (variante ES, 2008), più potente della precedente, possiede invece questa capacità, ed è stata usata per le missioni ATV verso la ISS per far rientrare nell’oceano il grosso stadio centrale del lanciatore europeo, dopo l’inserimento del carico in orbita.

Anche il secondo stadio del Falcon 9 è dotato della possibilità di riaccendere i motori al termine della missione, e dal 2014 effettua regolarmente, per le missioni in orbita bassa, una manovra finale per evitare di diventare un detrito spaziale. Qualche volta può accadere che ci sia un problema e l’accensione finale non avvenga. Questo non compromette la missione principale, ma può portare al rientro incontrollato dello stadio che si trasforma in un inaspettato spettacolo pirotecnico, come avvenuto di recente per la missione Starlink 17.

In caso lo stadio finale del razzo non disponga di questa possibilità, questo rimarrà nello spazio per molto tempo, costituendo un rischio per le altre attività spaziali. Si tratta comunque di un rischio ormai ben studiato, calcolato e monitorato dalle istituzioni a cui è assegnato il compito di tenere sotto controllo i detriti spaziali, come il recentemente istituito 18º squadrone della Space Force statunitense, o l’EUSST, European Union Space Surveillance and Tracking. Gli stadi apparentemente inattivi in orbita possono essere molto pericolosi soprattutto per il rischio di esplosioni improvvise, che peggiorerebbero enormemente la situazione generando migliaia di altri detriti da un singolo oggetto. Questi eventi sono dovuti all’energia residua che possiedono gli ultimi stadi, fondamentalmente a causa di propellente rimasto o batterie ancora leggermente cariche, che in qualche modo viene sollecitata col tempo nelle condizioni avverse dell’ambiente spaziale.

Da una decina d’anni alcune agenzie spaziali e produttori hanno adottato unilateralmente alcune pratiche per la mitigazione di questi rischi, sebbene non esistano accordi internazionali multilaterali che impongano restrizioni sull’uso dei lanciatori. In particolare, una pratica ormai adottata universalmente è la passivazione del razzo. Con questo termine si indicano le varie misure atte a eliminare il più possibile le cause che potrebbero portare in futuro il mezzo abbandonato all’esplosione, come l’espulsione del carburante residuo, lo scaricamento delle batterie e altre eventuali piccole procedure. Un’altra prassi abbastanza comune è posizionare l’ultimo stadio del razzo in un’orbita tale che il lieve attrito atmosferico lo faccia rientrare naturalmente a Terra entro 25 anni dal lancio, o eventualmente, nel caso di missioni verso l’orbita geostazionaria (GEO), di spostarlo a 250 km sopra quest’ultima in una cosiddetta “orbita cimitero”, dove non darà più alcun fastidio ad altre operazioni spaziali.

Le statistiche aggiornate ad aprile 2021 mostrano effettivamente numeri che richiedono attenzione. Ci sono circa 8.800 oggetti nello spazio riconducibili a lanciatori, che siano stadi, detriti o frammenti di essi, di cui circa 1.000 sono effettivamente stadi (rocket body) in orbita bassa o in un’orbita eccentrica con perigeo basso (LMO). Prima o poi questi oggetti rientreranno a Terra, liberando l’orbita che occupavano da pericoli. Il rientro avverrà per tutti in una zona imprecisata e senza preavviso, ma a velocità abbastanza elevata da far sì che la maggior parte della massa dell’oggetto bruci all’impatto con l’atmosfera.

OrbitaPLPFPDPMRBRFRDRMUITotale
LEO50586363130233892255213561016016133
GEO7673236610028870
EGO4641051188901316062404
GTO61100112451866615511131
NSO2720019100210376
MEO6425522012413270541
LMO89151746229709182209392408
MGO7063121772070507193107
HEO2812014685019011074
Altro35004300081123
Totale6908660514540419575817166900526528167
Numero di oggetti in orbita suddivisi per tipo di oggetto e tipo di orbita. Legenda nella fonte. Fonte: ESA

Non sono rari casi di ritrovamenti a terra di detriti orbitali, ma non si sono mai registrati ingenti danni per rientri del tipo di quelli discussi in questo articolo. La Terra, in fin dei conti, è bombardata costantemente da meteoroidi e meteoriti che spesso arrivano inosservati fino alla superficie, a un ritmo medio di 100 tonnellate di oggetti naturali al giorno. La massa dello stadio superiore di un razzo si aggira normalmente intorno a qualche tonnellata, e arriva fino a un massimo di 20 tonnellate nel caso del Lunga Marcia 5B, l’unico razzo a stadio singolo attualmente in esercizio. La grossa differenza con gli oggetti naturali è che quelli artificiali contengono componenti ad alta densità o progettati per resistere al calore, che hanno buone probabilità di superare relativamente indenni le fasi del rientro orbitale.

Rimangono da analizzare le missioni interplanetarie o dirette nello spazio profondo. Molto, in questo caso, dipende da quando avviene la separazione tra il carico utile e l’ultimo stadio, ma generalmente quest’ultimo si perde in orbita eliocentrica, cioè lasciando completamente l’orbita terrestre. Il destino può essere diverso, come nel caso del terzo stadio del Saturn V, che dalla missione Apollo 13 in poi è stato fatto schiantare sulla superficie della Luna per motivi scientifici. È anche successo, e non solo una volta, che uno stadio del Saturn V abbia abbandonato l’orbita terrestre e poi sia tornato quando ormai tutti si erano dimenticati di lui, non riconoscendolo e identificandolo come un nuovo asteroide scoperto.

Il moto in prossimità della Terra del presunto asteroide J002E3. Credit: NASA

Il terzo stadio della missione Apollo 12 superò la Luna, e si perse in orbita eliocentrica per circa 40 anni fino a tornare nei pressi della Terra ed essere identificato come asteroide, ricevendo la denominazione J002E3. A causa di vari giochi di meccanica orbitale, l’oggetto compì alcune orbite attorno al nostro pianeta, prima di lasciarlo (forse) definitivamente.

Questioni legali

È infine doveroso fare una breve digressione sulle questioni legali relative alla possibilità che un rientro incontrollato di un razzo, orbitale o suborbitale che sia, arrechi danni a persone o cose. Innanzitutto è bene sottolineare che anche in questo caso non ci sono accordi internazionali che regolamentino tutte le questioni. Oltre agli accordi sull’uso pacifico dello spazio promossi dall’ONU, l’unico altro trattato a livello di Nazioni Unite a riguardo è il LIAB del 1972 ovvero la Convenzione sulla responsabilità internazionale dei danni causati da oggetti spaziali. Ma anche in questo caso, non si tratta di una norma che impedisce di far ricadere razzi o detriti spaziali sulla superficie terrestre: il LIAB offre linee guida relative unicamente all’attribuzione delle responsabilità in caso di conseguenze indesiderate.

Inoltre, il LIAB è un accordo tra Stati, e non riguarda direttamente i privati. Se un detrito spaziale cade sulla casa di un cittadino di una nazione differente da quella di chi l’ha lanciato, saranno le due nazioni coinvolte a negoziare il rimborso dei danni. Il privato potrà solo rivalersi sullo Stato di cui è cittadino seguendo la giurisdizione locale, che ovviamente sarà diversa a seconda della nazione.

Mappa degli oggetti arrivati al suolo e rinvenuti dopo un rientro incontrollato. Credit: ESA

Comunque non è mai successo che una nazione invocasse il LIAB per la caduta di un razzo, e per la caduta di un satellite è successo una volta sola dal momento della sua adozione. Fu infatti applicato nel caso particolare causato della distruzione del satellite sovietico Kosmos 954, i cui frammenti caddero nel 1978 su una vasta porzione del territorio canadese senza causare però danni diretti. La particolarità di quell’evento sta nel fatto che il contenuto del carico era altamente radioattivo; erano presenti a bordo, infatti, 50 kg di uranio U²³⁵ necessari ad alimentare il reattore nucleare della sonda. In quel caso Canada e Unione Sovietica si accordarono per un risarcimento di 6 milioni di dollari canadesi.

Per quanto concerne le misure messe in atto dalle agenzie spaziali, normalmente il valore di fatalità attribuito al rientro incontrollato di uno specifico oggetto non deve superare una certa soglia limite. Per l’ESA questo valore è fissato a 1:10.000. Si tratta di un valore analogo a quello adottato dalle altre agenzie spaziali e da molte nazioni.

Il rischio per la popolazione poi dipende fortemente dall’inclinazione orbitale più che dalla massa stessa dell’oggetto, ovviamente supponendo che qualche detrito arrivi fino alla superficie terrestre. La variazione di questo rischio è dovuta principalmente alla distribuzione non uniforme della popolazione terrestre in funzione della latitudine. Un rientro casuale generico ha sempre valori al di sotto della soglia di emergenza riconosciuta, di circa un ordine di grandezza per inclinazioni orbitali tra i 35° e i 40°, e di ben due ordini di grandezza per orbite equatoriali. Ogni caso però ha una storia a sé, e va studiato individualmente.

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Commenti

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Gianmarco Vespia

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