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New Horizons sorvola Ultima Thule: il più lontano corpo celeste mai osservato da una sonda planetaria

Dopo quasi 13 anni di viaggio nello spazio profondo e dopo l’esplorazione di Plutone avvenuta con successo nel 2015, New Horizons ha raggiunto e sorvolato 2014 MU69, un asteroide nella fascia di Kuiper, portando a termine l’esplorazione del più distante corpo celeste mai osservato da una sonda planetaria.

All’indomani del sorvolo di Plutone nel Luglio 2015, New Horizons era, così come oggi, ancora in condizioni perfette e dotata di una strumentazione di ultima generazione. Dopo aver inviato a Terra le immagini più emblematiche del pianeta nano e aver in qualche modo trovato un riscatto alla “retrocessione” da pianeta vero e proprio avvenuta appena dopo il lancio nel 2006, sarebbe stato davvero un peccato non fruttare l’opportunità di continuare l’esplorazione della fascia di Kuiper. Già dal 2014 erano cominciate le osservazioni per trovare potenziali target per la sonda, nel qual caso l’esplorazione di Plutone fosse andata a buon fine. Il telescopio spaziale Hubble scoprì 2014 MU69, oggi provvisoriamente nominato Ultima Thule, il 26 giugno 2014, ma la scoperta non fu rivelata fino all’ottobre del 2014. Il 15 ottobre 2014 furono in realtà annunciati tre potenziali oggetti che avrebbero potuto essere osservati da New Horizons, identificati in quel momento come PT1, PT2 e PT3 (PT come potential target). Si trattava di oggetti decisamente più piccoli di Plutone, il loro diametro stimato variava dai 30 ai 55 km e la distanza dal Sole intorno alle 43-44 unità astronomiche. Le possibilità iniziali di raggiungerli senza dover ricorrere a manovre di correzione di rotta erano, rispettivamente, 100%, 7% e 97%. Ecco quindi come PT1, o 2014 MU69, avrebbe dato le miglior chance di sorvolo. I dati della sonda ESA Gaia hanno contribuito alla definizione precisa dell’orbita dell’oggetto. Per una sonda in viaggio ad una distanza così elevata dalla Terra e a velocità elevatissime (il sorvolo di Ultima Thule è avvenuto a 51.500 km/h), il fatto di risparmiare combustibile per correggere la rotta significava poterne conservare per eventuali successive estensioni di missione. Occorre infatti considerare che sono state necessarie quattro manovre, effettuate nell’ottobre e novembre 2015, per mettere la sonda in traiettoria verso Ultima Thule: nulla è stato fatto a costo zero, quindi, sebbene PT1 si trovasse già in gran parte sulla rotta di New Horizons. Nell’agosto del 2015, 2014 MU69 venne selezionato come obiettivo della missione, la cui estensione, tuttavia, rimaneva subordinata ad un’approvazione definitiva, poi avuta da parte della NASA nel corso del 2016. Nel marzo 2018, nell’ambito di un sondaggio condotto dai canali social della NASA, la missione ha scelto di chiamare PT1 Ultima Thule, come la mitica isola raffigurante il simbolo del varco di confini mai raggiunti prima.

Dopo altri due anni e mezzo di viaggio, New Horizons ha raggiunto con successo il suo obiettivo e ha sorvolato Ultima Thule tre giorni fa, il giorno di Capodanno, alle 06:33 ora italiana: si tratta del sorvolo ravvicinato più lontano nella storia delle esplorazioni spaziali. Ma dopo il sorvolo, l’attesa di nuove immagini è stata piuttosto lunga. Considerando la velocità di trasmissione dati, 1000 bit/secondo, la durata del trasferimento dei dati raccolti dovrebbe durare venti mesi. E anche per avere la prima storica immagine raffigurante Ultima Thule è stato necessario attendere le 20:00 ora italiana del 2 gennaio, contestualmente alla seconda conferenza stampa. Nella prima, tenutasi il 1° gennaio è stato infatti possibile mostrare solo pochi pixel provenienti da una ripresa avvenuta prima del sorvolo, intorno alle 10:38 ora italiana del 31 dicembre.

L’immagine di Ultima Thule diffusa dalla NASA nella prima serata del 1° gennaio, pesantemente elaborata, ma che permetteva di desumere la probabile forma bi-lobata dell’asteroide [fonte: NASA/JHUAPL]

La sera successiva è stato invece possibile apprezzare immagini con definizione molto più elevata, che hanno confermato come il sorvolo sia stato un successo non solo a livello di sonda intatta e “hard disk pieno”, ma anche per contenuto e qualità delle immagini. Questo non era affatto scontato dato che le immagini sono il risultato dell’orientamento della sonda e del puntamento della fotocamera LORRI rispetto al minuscolo corpo celeste. Orientamento e puntamento vengono eseguiti con comandi trasmessi a New Horizons con largo anticipo e considerando il tempo che questi comandi richiedono per raggiungere la sonda (6 ore/luce di distanza, sola andata) il rischio che il set di istruzioni non sia corretto e la sonda fotografi lo spazio vuoto è piuttosto elevato. Le foto condivise hanno confermato che Ultima Thule appartiene ad una famiglia sempre più ampia di oggetti definiti in inglese come contact binaries, ovvero oggetti binari a contatto, formatisi grazie all’azione gravitazionale, probabilmente coadiuvata da altri meccanismi di impatto, che hanno permesso alle parti in rotazione di congiungersi dolcemente. Va da sé come la memoria sia immediatamente corsa alla cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko, esplorata dalla sonda ESA Rosetta tra il 2014 e il 2016. La NASA è stata peraltro protagonista di una svista, certamente aiutata dalle condizioni di parziale shutdown ancora in corso al momento della stesura di questo articolo, definendo in un tweet Ultima Thule come il primo oggetto binario a contatto mai esplorato. Ma sviste a parte, 2014 MU69 e 67P non solo gli unici oggetti noti di questa categoria: si contano svariate comete e asteroidi scoperti e talvolta osservati via radar.

La genesi di Ultima Thule (fonte: NASA/JHUAPL)

Le immagini del sorvolo sono state scattate ad una distanza minima di 2.500 chilometri, ma quelle diffuse il 2 gennaio sono state riprese da almeno 27.000 chilometri. Da queste è già possibile derivare molte utili informazioni che costituiscono la base di partenza dei lavori scientifici che saranno elaborati a partire dalla fine del mese di gennaio. Ultima Thule ruota con un periodo di 15 ± 1 ore e sappiamo ora avere un’estensione longitudinale di circa 33 chilometri. I due lobi, battezzati ora rispettivamente Ultima (maggiore) e Thule (minore) non presentano evidenti crateri da impatto, il che è abbastanza comprensibile se si pensa alle scarse interazioni lungo la sua orbita e al fatto che si tratta di un corpo in gran parte ghiacciato. Il suo colore predominante è il rosso, probabilmente derivato dalle stesse toline già osservate su Plutone. Le toline sono dei copolimeri che si formano per irraggiamento da parte della radiazione ultravioletta solare di composti organici semplici come metano o etano, spesso combinati con sostanze inorganiche quali l’azoto molecolare (N2). Non si formano in natura sulla Terra, ma dall’esplorazione di Plutone e Caronte sappiamo essere presenti in grandi quantità sui corpi ghiacciati del sistema solare esterno.

Il colore di Ultima Thule (fonte: NASA/JHUAPL)

La forma simile a quella di un pupazzo di neve ha confermato i risultati ottenuto dai dati raccolti durante le occultazioni osservate dai telescopi da Terra lo scorso anno. Questo è un fatto decisamente sorprendente, dato che le osservazioni da Terra di Ultima Thule eseguite dall’emisfero australe avevano come oggetto niente più di un puntino luminoso: da esse, fatto quasi incredibile, è stato possibile derivare la forma indicativa del corpo celeste con una precisione sbalorditiva.

Il profilo delle osservazioni di occultazione del 2017 e la forma di Ultima Thule desunta da esse, confrontata con la forma delle prime foto (fonte: NASA/JHUAPL)

La riflettività della superficie di Ultima Thule mostra un massimo del 13% per le zone a maggior riflettanza ed un minimo del 6% per quelle a minor riflettanza. Ultima Thule e’ quindi un corpo celeste tendenzialmente molto scuro e allo stesso tempo con una variazione di riflettanza tra zone chiare e scure particolarmente pronunciata. Il “collo” che connette i due corpi è una delle zone a più alta riflettanza (13%) ed è coerente con un modello che vede un deposito di materiale fine in quella zona.

La variazioni di riflettanza di Ultima Thule (fonte NASA/JHUAPL)

L’impresa di New Horizons può essere in un certo senso vista come una sorta di macchina del tempo che ci mostra l’aspetto dei “mattoni” con cui si è formato il Sistema Solare. Ora l’attesa di nuovi dati e nuove immagini sarà ancora più lunga, in proporzione. La trasmissione dati, infatti, subirà una fermata per circa una settimana, mentre New Horizons passerà in congiunzione al Sole (ovvero sarà nascosta dal Sole). Il downlink riprenderà quindi solo tra 6 giorni, il 10 gennaio, iniziando uno scaricamento dati che durerà quasi due anni per concludersi nel settembre del 2020. Solo a quel punto e dopo ben venti mesi avremo tutto il tesoro delle informazioni raccolte in un sorvolo velocissimo, letteralmente un battito di ciglia se confrontato al tempo necessario per portare tutti i dati a Terra. Nel frattempo New Horizons si spingerà verso il cuore della fascia di Kuiper per altri 800 milioni di chilometri. Siccome avrà a sua disposizione energia fornita dalla sua RTG per altri 20-25 anni e combustibile per potenziali cambiamenti di rotta, le possibilità di esplorare altri oggetti di quel freddo e misterioso reame ai confini del Sistema Solare sono ancora apertissime. Parte del team della sonda è già al lavoro per determinarne la fattibilità, anche se, nel caso avvengano, saranno oggetti di dimensioni ridotte ed equiparabili a Ultima Thule. Oggetti massivi come MakeMake, Eris o Haumea sono purtroppo tutti fuori dalla portata di New Horizons, che seguirà le sorti delle Voyager 1 e 2, esplorando l’eliosfera esterna e l’eliopausa, raggiungendola intorno al 2047. New Horizons non è comunque destinata a superare le sonde Voyager, anche se è partita più velocemente dalla Terra, e questo a causa delle fionde gravitazionali fornite dai sorvoli ravvicinati delle due Voyager. New Horizons raggiungerà la stessa distanza di Voyager 1 solo tra 19 anni e quando sarà giunta a quella distanza la sua velocità di fuga sarà di “soli” 14 km/s, contro gli attuali 17 km/s di Voyager 1. Ma questo non toglie che New Horizons abbia già fatto la storia sia con l’esplorazione di Plutone che con il sorvolo di Ultima Thule, aprendo le porte alla comprensione delle origini del nostro Sistema Solare. E non è escluso che altre pagine di storia potranno essere ancora scritte nei prossimi anni.


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