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Il batterio che visse tre anni all’esterno della ISS

L'Exposed Facility agganciata al modulo Kibo della ISS. Credit: NASA.

Sono stati pubblicati i risultati di uno studio sul batterio Deinococcus Radiodurans che, in un esperimento posizionato all’esterno del modulo giapponese Kibo della Stazione Spaziale Internazionale, attivando inaspettati sistemi di difesa e riparazione del DNA, è sopravvissuto per tre anni all’ambiente cosmico.

Il Deinococcus Radiodurans (Terrificante Cocco Resistente alle Radiazioni) è un batterio poliestremofilo in grado di sopravvivere, oltre alle radiazioni, anche a elevati sbalzi di temperatura, disidratazione, condizioni di vuoto assoluto e ambiente acido.
Il soggetto principale dello studio è stato il D. r. (ceppo R1 ATCC 13939), affiancato da tre ceppi mutanti incapaci di riparare il proprio DNA: il D. r. KH311 (senza il gene pprA), il D. r. rec30 (senza il gene recA) e il D. r. UVS78 (senza i geni uvrA e uvdE) e da un ceppo della specie D. aerius (TR0125 JCM 11750), isolato da campioni di polvere raccolti nell’alta troposfera.

Lo scopo dello studio era quello di sperimentare per la prima volta nello spazio la teoria della “massapanspermia”, proposta nel 2013 dallo stesso ideatore dello studio, Yuko Kawaguchi della School of Life Sciences della Tokyo University of Pharmacy and Life Sciences, in cui aggregati (masse) di cellule riescono a sopravvivere alle condizioni estreme dello spazio creando un’arca in grado di trasferirsi da un pianeta all’altro (panspermia).

In passato altri batteri erano stati esposti alle condizioni dell’ambiente cosmico, ma senza approfondire le analisi riguardanti lo spessore dei campioni, mutazioni e danneggiamento del DNA, lasciando aperte le ipotesi sui meccanismi di sopravvivenza e adattamento allo spazio.

Preparazione dei campioni

Cellule appositamente coltivate, cresciute e disidratate sono state poste in cellette di alluminio del diametro di 2 millimetri, suddivise per ceppo e diversificate in base allo spessore di cellule contenute: 1 µm (micrometro, millesimo di millimetro) equivalente a uno strato singolo di cellule, 100, 500, 1.000 e 1.500 µm.

A) Disco con le cellette del diametro di 2 mm contenenti campioni del batterio. B) Il disco chiuso nel contenitore protettivo. C) Sezione di ogni contenitore protettivo. D) Ogni pannello EP (exposure panel) era composto da 20 contenitori.

Le cellette quindi andavano a formare i pannelli EP (exposure panel), realizzati in due strati in maniera tale che lo strato superiore schermasse completamente quello sottostante dai raggi ultravioletti (UV). Per ottenere un ulteriore livello di diversificazione gli EP avevano una copertura superiore in cristallo di quarzo (SiO₂) o di fluoruro di magnesio (MgF₂) per filtrare tutta la radiazione UV inferiore a 200 nm (nanometri). Tale scelta era necessaria in quanto lunghezze d’onda inferiori risulterebbero sicuramente letali per i batteri, inoltre questo filtro è lo stesso che l’anidride carbonica opera nell’atmosfera marziana, impedendo alle radiazioni inferiori a 190 nm di raggiungere la superficie.

La capsula cargo Dragon CRS-6 di SpaceX, con a bordo i campioni, in avvicinamento alla ISS. La cattura verrà effettuata dal braccio robotico manovrato dall’astronauta italiana Samantha Cristoforetti. Credit: NASA.

Timeline dell’esperimento:

Risultati

All’arrivo nei laboratori per le analisi post missione, dopo le procedure di recupero, reidratazione e rianimazione dei batteri disidratati, i campioni di tutti e tre gli anni di esposizione all’ambiente cosmico non presentavano segni particolari di deterioramento rispetto ai campioni di controllo, se non per un leggero sbiadimento dal rosso al rosso giallognolo dovuto probabilmente ai raggi UV, mentre morfologicamente le cellule presentavano numerose vescicole esterne alla membrana.

Immagini riprese al microscopio elettronico a scansione (SEM). In alto (e, f) cellule di D. r. R1 rimaste a terra come controllo. In basso (a, b) cellule di D. r. R1 tornate a terra alla fine dell’esperimento.

Le analisi chimiche dei campioni esposti all’esterno della ISS hanno rilevato un’elevata presenza di proteine e trascritti primari di RNA, come risposta difensiva allo stress subito. In particolare, per proteggersi dall’azione ossidante dell’ossigeno atomico, è stata rilevata un’abbondanza dell’enzima catalasi e di putresceina.
Queste strategie, al momento della rianimazione, hanno permesso alle cellule una migliore rimozione dei rifiuti, trasmissione delle informazioni tra gli organi della cellula e assimilazione dei nutrienti forniti dai ricercatori.

Il leggero ingiallimento di uno dei campioni di 1000 μm di spessore, tornati a terra dopo un anno di esposizione ai raggi UV nello spazio, è visibile nel campione (b) di destra, rispetto a uno (a) di controllo a sinistra.

I campioni di controllo rimasti a terra presentavano un alto tasso di sopravvivenza per tutti e tre gli anni, indipendentemente dallo spessore del materiale biologico, mentre quelli stivati all’interno della ISS hanno presentato un basso tasso di sopravvivenza. Questa discrepanza è stata causata dalla differenza di umidità, 5–15 % a Terra e 45–50 % sulla ISS, che ha causato stress da ossidazione.

Per quanto riguarda i PE esposti all’esterno della ISS, i campioni di D. r. R1, di spessore 500 μm e superiori, hanno presentato un alto tasso di sopravvivenza e elevata capacità di riparazione del DNA dopo la rianimazione, pari a quelli di controllo rimasti a terra.
I campioni di D. aerius esposti all’esterno della ISS hanno presentato un elevato tasso di sopravvivenza solo a partire dallo spessore di 1.000 μm e superiori.

Per tutti i campioni con spessori di 1.000 e 1.500 μm nessuna differenza è stata notata relativamente al cristallo filtrante superiore (SiO₂ o di MgF₂).

La protezione del DNA è essenziale per la sopravvivenza nello spazio, l’ambiente cosmico può causare per esempio la frammentazione delle catene di proteine. I campioni mutanti KH311 e rec 30, sempre per spessori di 500 μm e superiori, non hanno presentato significativi danni al DNA, con percentuali di sopravvivenza simili ai campioni di controllo a terra.
Il terzo ceppo mutante UVS78, anche per gli spessori maggiori, ha invece presentato una bassa sopravvivenza, denotando l’importanza dei due geni mancanti (uvrA e uvdE) nel caso di esposizione alla radiazione UV.

La conclusione dello studio mette quindi in evidenza il fatto che aggregandosi in colonie, dove le cellule morte degli strati esterni fungono da protezione per le cellule interne, il D. radiodurans è in grado di sopravvivere per lunghi periodi nello spazio.
Estrapolando i dati dai diagrammi di sopravvivenza ottenuti, i ricercatori sono stati in grado di ipotizzare, per colonie con spessori maggiori di 500 μm una sopravvivenza, in orbita bassa terrestre, compresa tra 15 e 45 anni se esposte alle radiazioni UV e superiore ai 48 anni se schermate.
Per quanto riguarda invece un ipotetico viaggio interplanetario, senza quindi la schermatura delle fasce di Van Allen che riparano la Terra dalle radiazioni cosmiche, è stata prevista una sopravvivenza compresa tra 2 e 8 anni per colonie con spessore di 1.000 μm e superiori.

Fonte e foto credit: DNA Damage and Survival Time Course of Deinococcal Cell Pellets During 3 Years of Exposure to Outer Space. Front. Microbiol. 11:2050. doi: 10.3389/fmicb.2020.02050

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